LA FOTO CHE GUARDA

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Foto di André Kertész:
Quando lo sguardo guarda una fotografia che guarda, cosa accade?
Il rinascimento ci ha spesso mostrato, nei suoi ritratti pittorici, questo sguardo del soggetto ritratto, fisso sul pittore, come se ci fosse una relazione diretta tra osservatore e soggetto del dipinto. In questa famosissima immagine di Kertész nulla ci dice che qualcuno stia guardando qualcosa, non ci sono occhi se non i nostri. Gli occhi che guardano nel buco del muro sono pura invenzione e lo sarebbero anche se i due soggetti stessero veramente guardando attraverso un buco, questo perché, nel momento in cui noi guardiamo la foto e non i veri soggetti, la foto non può mostrare altro che due persone di spalle, il resto è immaginazione. Notate come l’illusione ottica della prospettiva in questa immagine giochi due ruoli, quello della tridimensionalità dei soggetti, e quello dell’idea di qualcosa oltre il presunto buco che i due soggetti presuntamente osservano.
Improvvisamente guardando la foto guardiamo il buio.
L’ identificazione con la foto come oggetto ci fa dare per scontato che abbiamo davanti un uomo e una donna che guardano da un foro, ma in realtà nulla di tutto questo è mostrato, semmai è dedotto: eppure noi guardiamo come se fosse esattamente così, siamo certi che sia così. L’unica conferma ce la può dare Kertész, ammesso che voglia raccontarci la verità.
Questa è una delle manifestazioni del divenire della fotografia.

Se cercate deliri nella fotografia non servono effetti speciali, basta guardare veramente…
Certa fotografia ad “effetti speciali” la potremmo paragonare ai fuochi artificiali. Ci serve sempre una scusa artificiale per guardare il cielo, quando poi, l’artificio stesso che guardiamo, finisce per frapporsi tra noi e il cielo. Del rapporto tra noi e il cielo, resta solo il nostro sguardo all’insù; inebetito come lo sguardo che non vede.
La semplicità è un lungo percorso di senso che termina nel divenire simbolico del senso stesso.

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FOTOGRAFARE I PENSIERI…

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Mimmo Jodice dice di fotografare i suoi pensieri.
Io credo che la sua fotografia vada ben oltre i suoi pensieri. Se c’è un limite alla sua fotografia è proprio in questa idea che a volte lo inchioda in un’idea.
Ma la fotografia non può essere un pensiero, non può essere un’idea, seppur nasca da entrambi questi elementi. Ogni madre che pone nel figlio le sue aspettative trasforma il figlio in uno strumento utile e lo uccide almeno in parte.
In questa statua gli occhi sembrano fissarci con intensità decisamente maggiore di quella di molti sguardi umani.
Dov’è la luce in questi occhi? Da dove viene? Cosa anima gli occhi di una statua fotografata? Cosa rende viva la rappresentazione mostrata attraverso un’altra rappresentazione?
Nello specchio della fotografia c’è sempre un’altro specchio. Il divenire sembra placarsi quando diamo un nome alla sensazione, quando lo identifichiamo con qualcosa di noi. Ma se l’identificazione si fa fluida, allora la forma non si ferma e diventa energia cinetica del sentimento che nella sua massima espressione non cerca nessuna risposta, gode del suo essere disperatamente libero.

BRESSON E IL FRAINTENDIMENTO

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Se dobbiamo parlare di forma il mago è senz’altro lui, Cartier Bresson. Non perché sia l’unico a saper comporre una foto a livello formale, ma perché è uno dei pochi che utilizzava il linguaggio (oggi scempiato dalla street) per raccontare i rapporti tra forma e sostanza. Molte foto di Bresson sono certamente ironiche e questo ha dato il “La” a una serie di virtuosi della simpatia che, confusi dalla loro superficialità, più che cercare il miracolo interno della fotografia che avviene ogi millesimo di secondo, si sono messi a cercare lo stupore esterno che cattura lo spettatore, nell’illusione di raccontare un fatto.
In questa foto di Bresson c’è un legame viscerale tra i corpi e la materia che li circonda. C’è una storia dell’umanità in questa foto.Una serie di coppie che comunicano ta loro: due bambini legati da un piano orizzontale, due adulti, un uomo e una donna, legati da un piano verticale, due bambine che sono due forme ad “L” dove piano orizzontale e verticale si sommano e due cani, anche essi uniti ad “L” ma su un piano schiacciato che li mischia formalmente quasi con il muro. Tutti gli elementi hanno un legame col muro fatto di linee verticali e orizzontali. Le coppie sono legate da questo muro che le allontana fisicamente tra loro ma le avvicina per contatto indiretto(tutti toccano il muro).Notate che l’unica persona che non tocca il muro (la signora sulla destra), sembra toccare il fotogramma visto che è stata tagliata per metà fuori, quasi a voler continuare questo gioco simbolico anche al di la dalla foto.
C’è il racconto dell’umanità in questa immagine, non lo sciocco racconto di street che potrei riassumere nello stereotipo del cappello rosso che vola alla persona grassa davanti alla cabina telefonica Londinese anch’essa rossa.
Capite la differenza di profondità tra l’istantanea fine a se stessa e quella che viene chiamata peripeteia? Se non sapete cosa sia, vi dò l’occasione di andarvelo a cercare. Bresson sentiva la forma della sua fotografia. Non ha mai fotografato una persona in vita sua, nonostante abbia fatto diversi ritratti. Eppure la maggior parte di quelli che hanno ricalcato le sue orme si sono messi a fotografare le azioni delle persone. Potrei quasi dire che il 90% del mondo della fotografia esiste per un colossale fraintendimento. Se molti di costoro sapessero cosa è veramente la fotografia, poserebbero la macchina fotografica come si posa una bomba che sta per esplodere.

EUGENE SMITH E L’INCOSCIENZA DI SE…

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Eugene Smith è un esempio lampante di come ci fosse un abisso tra quello che la sua fotografia aveva colto, e quello che la sua mente aveva colto. Nel tentativo di raccontare Pittsburg, impazzi decisamente. Non riuscì a ridurre il suo lavoro a meno di duemila scatti, infatti non fu mai possibile pubblicarlo. Smith era si un ossessivo eppure la sua fotografia non era ossessiva. Molte sue immagini sono dei tagli che bucano la struttura mondo. Lui ha fotografato il punto dove la barca di Truman si infrange nel cielo finto che appare dipinto, e che va al di la del muro (riferimento al film “the Truman show”). Smith non riusciva a selezionare le sue foto per una pubblicazione perché vedeva l’inconciliabilità tra i confini di un giornale o di una mostra, e lo sconfinato mondo che la sua fotografia vedeva. Molta grande fotografia è arrivata a noi non per coscienza dei fotografi, ma per autocoscienza della fotografia di se stessa. In questa immagine sia gli occhi della suora che l’orecchio del passante in fuori fuoco, ascoltano un dio. La sorella forse crede di esserne consapevole, il passante ascolta distrattamente… eppure dio è in questi simboli ma li travalica…lo sguardo della suora sembra strapparle i vestiti di dosso, tramutando il suo status in uno sguardo troppo umano direbbe Nietzsche. Mentre quell’orecchio ascolta distrattamente…come fa di solo l’umanità. Che roba ragazzi! Pensare che lo hanno chiamato fotogiornalista… come dire a Dante che era bravo a fare la lista della spesa…. D’altra parte Dante ce lo raccontano come uno consapevole di se, Smith no.