Una delle cose più interessanti che ho sperimentato stando qui in Burkina è stato quello di essere io lo straniero. Sentirmi addosso gli occhi di tutti, uno dei tre quattro bianchi in mezzo a un popolo di neri. Sopratutto i bambini, che non hanno schermi, mi hanno descritto coi loro sguardi quello che provavano vedendomi.
Questo è un posto dove tutti si salutano ma se incontrano un bianco restano interdetti, non perché non vogliano farlo, ma perché restano spiazzati dal fatto di incontrarti, allora se sei tu il primo ad alzare la mano e a salutare, il loro viso subito sorride e diventa amichevole.
Questa cosa mi ha fatto riflettere su quanto da noi il saluto tra estranei si stia perdendo, non è raro che all’interno del mio condominio vedo la vicina di casa nascondere la testa dentro al bagagliaio dell’auto mentre finge di scaricare la spesa, solo per evitare di salutarmi. Questo nostro atteggiamento descrive non solo ignoranza, ma anche paura, siamo rinchiusi nella nostra paura.
Qui la gente si saluta, a volte il modo con cui lo fanno è anche stucchevole, alcuni saluti sono dei veri e propri rituali che durano qualche decina di secondi e , anche se le cose che vengono dette sono sempre le stesse, le persone con piacere ripetono questo mantra.
Nei saluti burkinabé le frasi del buon giorno o buona sera sono sempre accompagnati dalla parola “pace” che qui suona così: “LAAFì”…
come se ricordarsi la pace a ogni saluto aiuti a mantenerla.
Non so se il saluto potrà salvare i burkinabè dall’ondata del mondo moderno, già non sono rare le scene in cui, durante una manifestazione religiosa o un concerto, diverse persone riprendono quello che accade col cellulare, sintomo malato e tipico del nostro mondo occidentale.
Per ora la pace dura, almeno quella tra le persone semplici, almeno fin quando il capitalismo con la sua falsa democrazia economica arriverà a ricordare a questo popolo che se il prezzo è giusto anche la pace può farsi da parte.
Io continuo a salutare… “LAAFì” a tutti